domenica 14 ottobre 2007

L' abitudine

(...) L' abitudine è la più infame delle malattie perchè ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portar le catene, a subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto. L' abitudine è il più spietato dei veleni perchè entra in noi lentamente, silenziosamente, cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza, e quando scopriamo d' averla addosso ogni fibra di noi si è adeguata, ogni gesto s' è condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci. (...)
O. Fallaci "Un Uomo"

3 commenti:

Chiara ha detto...

Bellissimo questo pensiero.. sembra essere sulla stessa matrice della poesia di Neruda.. infondo entrambe vogliono dirci la stessa cosa.. di non lasciarci soppraffare dall'abitudine e dalla routine quotidinana.. è strano come anche se siamo lontane ci siamo trovate a condividere un pò le stesse senzazioni.. ma ne sono felice, vuol dire che non si è soli!! a presto!

Tiziana Russo ha detto...

"Un uomo" è il mio libro preferito. In assoluto. Non c'è nessun'altro autore/autrice che tenga. Perchè ? Per come descrive l'amore che prova per Alekos Panagulis e la sua persona...

"Dinanzi a te c'era un baratro. Così largo, così fondo, così vuoto che il solo percepirlo ti dava la nausea, la voglia di vomitare. E questo baratro era lo spazio, lo spazio aperto. Dentro il sepolcro avevi dimenticato che cosa fosse lo spazio, lo spazio aperto.Era una cosa terribile. Perchè era una cosa che non era: senza un muro che lo limitasse, senza un soffitto che lo tappasse, senza una porta che lo chiudesse, senza un lucchetto, senza sbarre! Si spalancava dinazi a te e intorno a te come un oceano misterioso, insidioso, e l'unico riferimento era la terra che si stendeva giù per la vallata e per le colline, appena interrotta da ciuffi d'erba o da alberi: allucinante.

Ma la cosa peggiore era il cielo. Dentro il sepolcro aveva dimenticato anche cosa fosse il cielo. Era un vuoto sopra un vuoto, una vertigine sopra la vertigine: così azzurro, no, così giallo, no, così bianco. Così cattivo. Bruciava le pupille più di un acido, più di un fuoco.

Chiudesti gli occhi per non accecare, allungasti le braccia per non cadere. E subito il pensiero della tua cella ti afferrò insieme a una nostaglia irresistibile, un desiderio irrefrenabile di tornarci, rifugiarti nel suo buio, nel suo ventre angusto e sicuro. La mia cella, ridatemi la mia cella. L'ufficiale che portava la borsa con i vocabolari e con le lime capì, ti raggiunse, ti toccò una spalla: "Coraggio".

Riapristi gli occhi, sbattendo le palpebre, facesti un passo, poi un altro, e poi un altro ancora. Ti fermasti di nuovo. Non era una questione di coraggio, era questione di equilibrio. Camminare in tutto quello spazio, quella luce, e da solo, non era come camminare lungo i viottoli della prigione, stretto da due guardie che ti sorreggono per i gomiti: era come brancolare sull'orlo di un precipizio. Perfino andare diritto era difficilissimo perchè in mancanza di pareti, ostacoli, non capivi dove fosse il diritto e l'obliquo, il davanti e l'indietro, capivi soltanto che c'era il sopra e il sotto, il cielo e la terra, il sole abbagliante.
Però a poco a poco, mentre la nausea cresceva, e l'incertezza, e la paura, mentre tutto si allargava e ruotava e si rovesciava per farti ripetere la-mia-cella-ridatemi-la-mia-cella, ritrovasti te stesso. E scorgesti qualcosa. Cosa? V'erano ombre laggiù, macchie in movimento. Venivano verso di te fluttuando, agitando strane appendici che a momenti sembravano ali e a momenti sembravano braccia. Uccelli o persone? Persone, perchè rumoreggiavano indefinibili suoni che dovevano essere voci: "Aleekoos! Aleekoos!" Che sforzo atroce dirigersi da quella parte. "Aleekoos! Aleekoos!"D'un tratto dalle macchie si staccò una macchia: una figura nera, tozza. E divenne una donna col vestito nero e le calze nere e le scarpe nere e il cappellino nero e gli occhiali neri. E ti corse incontro, con le mani tese, le dita tese. Tua madre. Le cadesti addosso.

E allora tutti ti furono addosso, amici, e parenti, e giornalisti, per toccarti, abbracciarti,chiamarti affinchè tu non rimpiangessi più la tua cella, e infatti, di colpo, non la rimpiangevi più, ti sentivi inspiegabilmente felice; pur avendo un gran bisogno di piangere. Non avresti voluto piangere, avresti voluto dire qualcosa di importante, di storico. Ma più ti chiedevi cosa poteva essere questo qualcosa, più il bisogno di piangere cresceva, gonfiava, diventava un formicolio alla gola, una cortina d'acqua sugli occhi.
Perchè lo smarrimento che avevi provato vedendo quel baratro ora si traduceva in un'intuizione precisa, anzi nella consapevolezza che la libertà sarebbe stata per te un'altra sofferenza, un altro dolore.
E questo era l'uomo che l'indomani avrei finalmente incontrato, per cozzare contro di lui come un treno che percorre all'inverso lo stesso binario."

Cryccro ha detto...

Tiziana, sono pienamente d'accordo con te. Il passaggio che hai scritto rende esattamente l'idea del romanzo, dell' amore profondissimo ma non melenso, dell' orgoglio e la fierezza per la persona che è lui...veramente un gran bel libro.

Chiara, nel giro di tre giorni ho letto la tua poesia e questo passaggio del libro che sto leggendo...un caso???